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A
sentir parlare di "arte classica" le reazioni possono essere
differenti, ma in fondo è probabile che si provi un piccolo brivido
pensando a statue immacolate e un poco gelide. Peccato che questo sentire,
radicato da secoli nella nostra cultura, sia uno dei più colossali
fraintendimenti che la storia dell’arte conosca. Un greco o un romano
che - per assurdo - potesse visitare i nostri musei inorridirebbe di fronte
a tanto pallore. D’altra parte il visitatore moderno che si trovasse
di fronte a una scultura antica conservata con la sua policromia originaria,
la prenderebbe per uno scherzo discutibile e subirebbe una sorta di choc
estetico.
Se la prima ipotesi resta improbabile, per verificare la seconda basta
recarsi ai Musei Vaticani e visitare la mostra «I colori del bianco»
in cui sono esposte una serie di opere antiche con tracce più o
meno consistenti del colore originario, ma soprattutto le loro ricostruzioni
al vero in cui si è tentato di riprodurre la policromia antica.
Un équipe di archeologi, chimici e filologi che ruotano attorno
a tre musei (la Gliptoteca di Monaco, la Gliptoteca Ny Carlsberg di Copenaghen
e i Musei Vaticani) ha unito le forze per tentare di visualizzare come
doveva apparire ai contemporanei una serie di sculture tra l’arcaismo
greco (VI secolo a.C.) e l’età romana imperiale.
Sia chiaro: pensare di ripristinare l’aspetto delle sculture esattamente
"come nuove" sarebbe una presunzione eccessiva. Ogni ricostruzione
si basa su una complessa serie di analisi, che integrano l’occhio
dell’archeologo con foto a luce ultravioletta o radente, con l’uso
di microscopia ottica e a scansione elettronica, con cromatografia a gas
e liquida.
Le copie policrome così ottenute mantengono necessariamente una
percentuale di ipotesi che, a seconda della conservazione dell’originale,
sarà ora più ora meno elevata. Si potrà dunque discutere
sul singolo dettaglio, ma nell’insieme si tratta di uno sforzo che
permette di sfatare vecchie concezioni e di avere un’idea assai
più verosimile della realtà antica.
Il "racconto" del colore inizia con l’arcaismo greco e
subito ci si accorge che il recupero della decorazione policroma non è
un dettaglio secondario, ma coinvolge il significato stesso della scultura.
L’esempio migliore si ha in uno dei pezzi che si trovano in tutti
i manuali: la cosiddetta kore del peplo del Museo dell’Acropoli
di Atene. Una volta che ne venga ricostruita la policromia originaria,
infatti, questo nome si rivela doppiamente sbagliato: non è una
kore, né porta il peplo. Ma cominciamo dall’inizio: alla
fine dell’Ottocento vennero alla luce le sculture dedicate nei santuari
dell’Acropoli, distrutte dall’invasione persiana del 480 a.C.
e pietosamente seppellite sul posto dagli Ateniesi prima della ricostruzione.
In quell’occasione fu scoperto un gran numero di statue femminili
ritte in piedi, dal volto luminoso e dal sorriso lievemente enigmatico.
Dovevano rappresentare l’offerta di famiglie della fascia sociale
più elevata dell’Atene dell’epoca e vennero definite
korai, in greco "fanciulle". Tra queste era anche la nostra
kore, vestita di una mantellina sopra una veste lunga che si apriva sul
davanti, al di sotto della cintura, a mostrare la gonna. Qualcosa, però,
non era del tutto chiara: l’abito lineare e severo, infatti, era
un po’ troppo all’antica se paragonato allo stile della testa
(530-520 a.C.).
Esaminando la statua con particolari tecniche fotografiche sono saltati
fuori dettagli interessanti: la luce radente ha permesso di riconoscere
i sottili graffiti preparatori delle figurazioni dipinte e la luce ultravioletta
ha fatto emergere tracce di colore ormai invisibili a occhio nudo. Si
sono così ricostruiti i disegni della veste e si è recuperato
il fregio ad animali e cavalieri sulla gonna. Il vestito "all’antica"
non era dunque un attardamento della moda, ma una veste cerimoniale di
origine orientale (l’ependytes) utilizzato per la dea Atena o, forse,
per Artemide, pure venerata sull’Acropoli. Perdiamo dunque la «kore
del peplo» per guadagnare una «dea con ependytes».
Sorprendenti per altri motivi sono le ricostruzioni delle statue dei frontoni
del tempio di Atena Aphaia sull’isola di Egina, il vanto della Gliptoteca
di Monaco, raffiguranti una battaglia fra Greci e Troiani. La scultura
più completa dal punto di vista del colore è il cosiddetto
Paride, un arciere troiano inginocchiato che sta per scoccare la sua freccia
micidiale. Veste una giacchetta di cuoio attillata e senza maniche, decorata
da bordure e da una fascia, mentre al di sotto indossa una specie di "pullover".
Le maniche sono fittamente decorate di motivi romboidali che si incastrano
gli uni negli altri, giocati sul rosso, verde malachite, blu e giallo,
con un effetto da far invidia a un moderno designer, mentre i pantaloni
hanno un disegno simile, che segue elasticamente la modulazione delle
membra asciutte e vigorose.
Passando all’età romana troviamo due casi molto diversi di
ritratti imperiali. Uno è l’Augusto di Prima Porta dei Musei
Vaticani, la statua più famosa di questo imperatore, trovata nella
villa della moglie Livia poco fuori Roma, sulla via Flaminia. Anche a
distanza e in penombra non si può sbagliare: solo l’imperatore
portava quel mantello rosso porpora, un tono squillante ottenuto con una
lacca organica finora raramente identificata sulla scultura. È
il paludamentum, segno inconfondibile dell’autorità militare,
che Augusto portava solo sul campo e che mai poteva indossare in città,
nella vita civile. Sulla corazza, il cui fondo conserva il colore bianco
e luminoso del preziosissimo marmo di Paros, spiccano invece in blu, rosso
e marrone i rilievi che raccontano la restituzione ai Romani delle insegne
che i Parti avevano strappato all’esercito di Crasso, distrutto
nella battaglia di Carrhae. Era uno dei vanti dell’imperatore averle
recuperate per via diplomatica, rimuovendo una grave onta senza ricorrere
a ulteriore spargimento di sangue. Il colore, in questo caso, sottolinea
solo gli elementi salienti per comunicare nel modo più chiaro e
immediato il messaggio politico dell’opera, con tecnica quasi pubblicitaria,
anche a costo di violare le convenzioni realistiche lasciando bianca la
corazza e la pelle.
Tutto al contrario avviene nel ritratto di Caligola della Gliptoteca Ny
Carlsberg di Copenaghen, dove le tracce di incarnato hanno permesso di
ricostruire una pelle vivacemente colorata.
L’originale conserva ancora l’occhio sinistro con ciglia,
sopracciglio e iride, mentre le frange dei capelli sono delineate con
sottili tratti di pennello a integrare le ciocche che lo scultore aveva
realizzato plasticamente. Per ottenere la copia destinata all’esperimento
di colorazione, si è ricorsi addirittura a una scansione laser
dell’originale: sulla base di questi dati una fresa guidata dal
computer ha scolpito un duplicato in marmo, per non danneggiare con calchi
tradizionali i resti di colore.
Per dare un’idea dell’evoluzione del gusto cromatico romano
è esposto un sarcofago paleocristiano dei Musei Vaticani di cui
un recentissimo restauro oltre alla policromia ha recuperato la doratura:
nelle scene campestri il vello delle pecore al pascolo è finemente
tratteggiato in oro a suggerire una vibrazione luminosa che, vista alla
fiamma tremolante delle lucerne nel sepolcro, doveva conferire un’aura
particolare al rilievo. Chiude la mostra il ritratto di Ariadne, moglie
dell’imperatore bizantino Zenone: l’imperatrice che vide la
caduta dell’impero romano d’occidente. Un volto dallo sguardo
perforante grazie alle pupille dilatate, ottenute mediante inserti di
pietra nera, e coronato dal copricapo purpureo e dorato, colorazione di
cui restano ancora tracce piuttosto evidenti.
Visto così il mondo antico ci appare molto meno (neo)classico.
Oggi che si è consumata la frattura tra radici greco-romane e modernità
c’è almeno questo vantaggio: la possibilità rivedere
le prime con occhio libero da preconcetti per esplorarne lati nonostante
tutto ancora nuovi, come "opera aperta", dunque veramente classica.
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